Perché i tassi di interesse delle banche centrali rimarranno alti (e a lungo)
Chi dopo il fallimento di Silicon Valley Bank negli Stati Uniti e le forti difficoltà della svizzera Credit Suisse si aspettava un cambio di orientamento nella politica monetaria delle banche centrali occidentali, è probabilmente rimasto parecchio deluso.
Non solo la BCE ha alzato nuovamente il tasso d’interesse di 50 punti base, portando il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali al 3,50%, ma la Presidente Lagarde ha lasciato intendere che potrebbe non essere finita qui se i dati sull’inflazione non saranno quelli desiderati, e pare proprio che non lo siano. Ed infatti il mercato finanziario si aspetta altri due aumenti da 25 punti base, uno a maggio ed il secondo a giugno.
Banche centrali alle prese con la crisi delle banche
Questo significa che le banche centrali hanno ignorato i segnali di difficoltà del mondo bancario? Tutt’altro. La Fed ha disposto il salvataggio di tutti i correntisti delle due banche fallite, la Silicon Valley Bank e la Signature Bank, andando oltre il limite - già piuttosto alto - dei 250 mila dollari. Ed inoltre ha creato un nuovo canale di liquidità (BTFP) per le banche in difficoltà che secondo JP Morgan potrebbe valere fino a 460 miliardi, riconoscendo come collaterale dei prestiti i titoli ‘alla pari’. In sostanza, le banche americane potranno utilizzare come garanzia per questi prestiti della Federal Reserve i propri asset finanziari al costo d’acquisto, invece che al costo di mercato: un grandissimo aiuto, dato che proprio il deteriorarsi dei propri attivi ha contribuito a mandare gambe all’aria la banca californiana. Similmente la banca centrale svizzera ha garantito oltre 50 miliardi di dollari per salvare solamente Credit Suisse.
Cifre davvero considerevoli, che tra le altre cose fanno impallidire pure i più convinti sostenitori della riforma del MES – che ciclicamente balza agli onori delle cronache - che dovrebbe far diventare questa istituzione il ‘backstop’, cioè la rete di salvataggio, del fondo di risoluzione unico europeo.
In sostanza la crisi delle banche americane non spaventa più di tanto, il sistema bancario americano sembra più solido del 2008, ma soprattutto, e qui sta la vera differenza, le banche centrali hanno tratto qualche insegnamento dal fallimento di Lehman Brothers e dal collasso dell’economia globale che ne è conseguito. Motivo per cui al primo segnale di pericolo vero, come per le banche regionali americane o per Credit Suisse (banca sistemica) il salvataggio è assicurato.
Il vero nemico delle banche centrali è l’inflazione
Nel frattempo, il vero nemico è (ancora) l’inflazione. Sia nell’Eurozona, in cui il dato di febbraio si conferma all’8,5% annuale, sia negli Stati Uniti in cui è scesa al 6%. Ciò che non convince le banche centrali è però la cosiddetta inflazione di fondo, cioè quella depurata dai più volatili prezzi dell’energia e dei beni alimentari. L’idea è quella di valutare l’andamento dei prezzi più costanti, per avere un’idea più precisa di quanto persistente potrà essere l’inflazione. Ebbene, l’inflazione di fondo nell’Eurozona non ha mai smesso di crescere nell’ultimo periodo, neppure a febbraio quando è arrivata al 5,6%. Un dato davvero considerevole che cozza pesantemente con l’obiettivo, sempre ricordato da Madame Lagarde, di riportare la crescita dei prezzi attorno al 2% nel medio periodo.
Con questo scenario gli aumenti dei tassi d’interesse andranno avanti fino a quando l’inflazione tornerà sotto controllo, o fino a che non si rischierà una vera crisi sistemica per il mercato finanziario. Negli Stati Uniti come in Europa. Ed avrà come al solito poca voce in capitolo la politica, che anche in Italia - dalle parti del governo - fa sentire la propria flebile voce di dissenso, comprendendo bene che gli aumenti dei tassi stanno già colpendo, più che il sistema bancario, le tasche dei cittadini, che tra mutui e prestiti si stanno trovando a pagare il conto della politica della BCE. Politica monetaria che aiuterà forse a calmierare l’inflazione ma che sicuramente porterà con sé una recessione, che secondo le stime di Confcommercio è già tecnicamente iniziata dato che sia il quarto trimestre del 2022 che il primo del 2023 vedono un PIL negativo.
Sarebbe quindi molto più sensato per il governo prepararsi a gestire una fase di decrescita, sostenendo cittadini ed imprese; certo, dopo aver tagliato gli adeguamenti alle pensioni, il reddito di cittadinanza e la cedibilità dei bonus edilizi, le premesse non sono delle migliori.
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