Doveva essere una rivoluzione, non è neanche un petardo

Doveva essere una rivoluzione, non è neanche un petardo

Perché poi, quando si alimenta tutto questo mistero sui “nomi”, la verità è che i nomi non ci sono. Ci sono ipotesi, più o meno convinte, più o meno improvvisate e un alone di mistero per coprire il vuoto attorno a chi sarà il commissario europeo che spetta all’Italia. Ma non c’è, questo il punto, una strategia credibile costruita dal Governo italiano sul dossier, neanche sull’ultima nomina rimasta, l’ultimo strapuntino dopo il grande fallimento del negoziato attorno ai vertici europei, che registra l’Italia più debole e isolata. È la fotografia di un reflusso, dopo i roboanti annunci alla vigilia del voto sulla “rivoluzione sovranista” che avrebbe portato a un cambiamento radicale nella tolta di comando dell’Ue.

Adesso non c’è certezza neanche sul commissario. Quale casella, pesante o un contentino. Quale figura, tra tanti nomi che vengono fatti che non parlano neanche inglese. Ecco, la visita italiana del neo commissario Ursula von der Leyen si è rivelata, in definitiva, un semplice scambio di cortesia, più che un appuntamento negoziale vero. Perché ha trovato un’Italia smobilitata, con il premier che, con la consueta eleganza, ha sondato e chiesto garanzie, affogando in una sorta di discorso sul metodo l’impossibilità di un discorso politico, razionale, definito, supportato da una riflessione condivisa all’interno del Governo

Anche la potente fabbrica degli spin che alberga a palazzo Chigi si limita a far trapelare che “nomi non ne sono stati fatti”, ma ancor più indicativo è che i più abili sarti della comunicazione fossero in vacanza, elemento che misura l’importanza attribuita all’incontro e il clima che si respira. E il vero capo del Governo che dal Papeete Beach si diletta e diletta in un quotidiano panem et circentes, alimentando il mito dell’estraneità all’establishment nazionale ed europeo, perché in fondo cosa gliene frega al popolo di chi sarà il commissario italiano nell’Europa dei banchieri e delle regole assurde, che magari esprimerà qualche perplessità sulla prossima manovra se costruita con l’intento di sballare i conti. E cosa gliene frega che l’Italia è sempre più isolata rispetto al passato in cui – basta fare qualche nome: Prodi, Monti, Bonino, Draghi – era nel cuore apicale dell’Unione, dove le decisioni vengono prese e non subite.

C’è tutto questo dietro il mistero sui nomi, dati all’ultimo momento, come se la questione non fosse rilevante. E su una trattativa che non decolla e non perché c’è tempo fino a fine mese (gli altri paesi già da tempo sono impegnati sul dossier), ma perché manca la colla politica. E l’Italia è arrivata tardi e male. La verità è su questo che per Salvini si misura il peso dell’Italia in Europa, perché in fondo la sua strategia “prescinde” da questo. E prescinde, sempre, da una assunzione di responsabilità per cui, alla fine, è meglio dire “colpa degli altri”: vale per il Governo italiano, vale per l’Europa.

La solita ridda di voci attorno ai soliti nomi lascia intendere che il leader della Lega ha fatto davvero il minimo indispensabile preferendo stare “fuori”, sin dal voto contro la commissaria su cui si è diviso il governo e ha affondato l’unica vera, possibile, candidatura di peso, quella di Giancarlo Giorgetti. Perché magari i petali della rosa saranno anche nomi eccelsi della Lega – Giulia Bongiorno, Lorenzo Fontana, Massimo Garavaglia – ma il punto è che una strategia degna di questo nome si basa sul rapporto tra il nome e il portafoglio a cui si ambisce. Ed è chiaro che se l’ambizione, come ha spiegato il presidente del Consiglio, è di avere un portafoglio economico è altrettanto chiaro che alcuni di questi nomi sono palesemente inadatti. Insomma, nomina sunt conquaentia rerum

Invece l’impressione è che la questione del commissiario europeo si sia ridotta all’ennesimo tassello di un gioco interno che poco a che fare con una visione dell’interesse nazionale e con il ruolo che il governo, nel suo insieme, vuole giocare in Europa: Salvini che dà il nomi a Conte solo alla fine, Conte che fa trapelare la sua irritazione, un incontro inutile con il neo-commissario, Salvini che, fanno sapere i suoi, “adesso vuole vedere come si comporta Conte” e alimenta la suspense prima del suo comizio balneare di sabato sera in cui continuerà a tenere sulle corde il governo.

Parliamoci chiaro: se l’intero gioco fosse stato coralmente gestito attorno a una figura credibile, il premier avrebbe avuto maggiori margini di azione e tutto sarebbe stato costruito con la consueta grancassa mediatica, non certo in un clima di vacanza, telefoni spenti, sospiri e misteri. E magari qualcuno avrebbe fatto una telefonata al Quirinale che, si sa, non interviene su ciò che è di competenza del governo, ma certo ha cuore tutto ciò che attiene al peso e al ruolo che l’Italia agisce in Europa. È chiaro che Salvini non ha fretta. E in questa sconfitta annunciata di un paese che, in Europa, rischia di doversi accontentare di uno strapuntino, c’è il gioco cinico e angusto di chi vuole tenersi le “mani libere”, nell’ambito di una “via nazionale” al sovranismo, fallita la rivoluzione europea. Neanche il commissario. Sai che bella campagna d’autunno contro la perfida Europa dei tecnocrati, della Merkel, di Macron e della von der Leyen