L’incapacità di affrontare un fallimento chiamato Alitalia
All’aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino la notizia della nomina di tre commissari per l’ex compagnia di bandiera Alitalia non ha turbato il tran tran quotidiano degli arrivi e delle partenze. Non era inaspettata. I voli Alitalia per ora sono tutti garantiti e i più preoccupati sembrano i passeggeri che chiamano di continuo il call center per chiedere se i servizi già acquistati rischiano di saltare. I dipendenti non hanno molta voglia di parlare. Il 24 aprile hanno espresso la loro sfiducia, votando in massa contro l’intesa raggiunta il 14 aprile tra sindacati e proprietà in cambio di una ricapitalizzazione di due miliardi di euro. L’associazione Assohandler stima che a rischiare il posto di lavoro, nella nuova fase di commissariamento, saranno circa duemila persone.
Nonostante questo, i dipendenti non sono pentiti di aver respinto l’intesa. “Nessuno pensava che avrebbe vinto il no al referendum”, dice Marino Roberti (nome di fantasia su richiesta dell’intervistato), un pilota che lavora per l’Alitalia dal 1997 e non nasconde la sorpresa per l’esito della consultazione. L’affluenza è stata alta. Hanno votato 10.101 dipendenti su 11.602 e il risultato è stato netto. Uno schiaffo ai sindacati, ai manager dell’azienda e anche al governo, che a urne aperte ha escluso lo stanziamento di fondi pubblici per salvare l’ex compagnia di bandiera che ha i conti in rosso dalla fine degli anni novanta.
“Il referendum di per sé non si doveva nemmeno svolgere e ora, a guardarlo a distanza di una settimana, sembra sia stato un modo per attribuire ai lavoratori la responsabilità dell’ennesimo fallimento”, continua Roberti. I dipendenti dell’Alitalia si sentono presi in giro da tutti, perfino dai giornali che li descrivono come dei privilegiati. “Nella crisi del 2008 sono stato per due anni in cassa integrazione, poi sono stato gradualmente reintegrato”, dice Roberti, “ora non guadagno molto di più di un pilota di EasyJet e lavoro con un contratto ai livelli minimi previsti dalla normativa europea”.
E la situazione degli assistenti di volo è anche peggiore. “L’epoca d’oro delle compagnie di bandiera io non l’ho mai vissuta”, racconta Mara Romania (nome di fantasia su richiesta dell’intervistato), da 22 anni assistente di volo nell’Alitalia. La nuova gestione Etihad chiama le assistenti di volo cabin manager, ma la retribuzione è sempre la stessa. “Guadagno come un’impiegata: 18mila euro lordi all’anno”, spiega Romania. “Si lavora spesso di notte, ma si viene pagati come fossero ore diurne, senza alcuna maggiorazione e lo stesso vale per i festivi”, aggiunge. “Siamo reperibili spesso per dodici ore con novanta minuti di tempo dalla eventuale chiamata per presentarci in aeroporto. Questa reperibilità non ci viene pagata”, spiega Romania. “Veniamo pagati, non per ore reali di servizio e capita spesso di lavorare stando via giornate intere, tra ritardi, variazioni operative, ma solo due o tre ore di volo sono retribuite”, continua.
Giancarlo Marcialis, un altro assistente di volo e sindacalista dell’Unione sindacati di base (Usb), conferma: “I francesi ci chiamano muli, lavoriamo più ore dei nostri colleghi europei. Il nostro contratto è tarato sui massimi previsti dalla normativa europea. Più di così non possiamo lavorare”. E spiega: “Dopo voli intercontinentali di 15 ore abbiamo solo 24 ore di pausa prima di ritornare indietro, con tutte le conseguenze che questo comporta per la salute e con diarie di 42 euro che non coprono le spese che si affrontano stando fuori casa”.
Malgrado i costi bassi del personale, che rappresentano solo il 17 per cento delle spese dell’azienda, nel 2016 l’Alitalia ha registrato perdite per 600 milioni di euro. “Ma fino all’estate scorsa l’azienda non prospettava ai suoi dipendenti un futuro così nero, anzi prometteva di raggiungere il pareggio di bilancio entro gennaio del 2017”, spiega Marcialis.
Nino Cortorillo, segretario nazionale della Filt Cigl, conferma che la consapevolezza di una nuova crisi è emersa solo alla fine dello scorso autunno. I sindacati sono stati convocati a ottobre del 2016 e hanno capito che non solo i bilanci erano in rosso, ma che la liquidità stava finendo. “Abbiamo saputo che l’azienda rischiava di nuovo il fallimento, possibilità che era stata fino a quel momento nascosta dagli azionisti”, spiega il segretario nazionale della Filt Cigl.
Dopo una lunga trattativa, il 14 aprile i sindacati confederali – Cgil, Cisl e Uil – hanno firmato un verbale d’intesa con la proprietà che prevedeva 980 esuberi tra i contratti a tempo indeterminato e circa 600 esuberi tra i lavoratori con contratti a termine, e inoltre tagli salariali tra il 5 e il 35 per cento per il personale navigante: piloti e assistenti di volo. In cambio gli azionisti avrebbero sbloccato la ricapitalizzazione da due miliardi. “Sono sempre stato convinto”, assicura Cortorillo, “che il commissariamento sarebbe stato peggio di qualsiasi piano industriale, perché l’amministrazione straordinaria ha dei vincoli di legge e delle rigidità che lasciano poco spazio alle trattative”.
Questa convinzione, però, non è stata condivisa dai lavoratori dell’Alitalia che hanno preferito scommettere su una nuova amministrazione straordinaria. Anche gli assistenti di terra che non erano direttamente interessati dai tagli salariali hanno bocciato l’accordo stipulato dai propri rappresentanti sindacali e c’è chi scommette che ora “molti lavoratori ritireranno le loro deleghe”.
Il pilota Roberti spiega che “il no dei lavoratori è stato nel merito, perché i tagli sullo stipendio, soprattutto per i lavoratori part-time, avrebbero raggiunto dei picchi del 30 o 35 per cento” ma non nega che si è trattato di un no “anche di principio”. La delusione riguarda soprattutto la gestione aziendale cominciata nel 2014, quando la compagnia aerea degli Emirati Arabi Uniti, Etihad, ha acquistato il 46 per cento delle azioni dell’Alitalia investendo appena 380 milioni di euro.
“All’epoca ci sono stati chiesti dei sacrifici – tagli sullo stipendio e niente tredicesima – ma speravamo che un’azienda come Etihad fosse interessata a rilanciare la compagnia, eravamo pieni di speranze”, dice il pilota. A differenza della cordata degli industriali italiani del salvataggio del 2008 che non sembrava avere nessun interesse nell’aviazione civile, l’ingresso di Etihad nell’azienda aveva illuso i dipendenti che si sarebbe investito “sulla qualità della flotta, sulle tratte a lunga percorrenza, sugli equipaggi”. Ma a distanza di tre anni è arrivata una nuova crisi: la terza dal 2008, l’ultimo atto di una serie di fallimenti dell’azienda italiana che è costata alle casse dello stato negli ultimi dieci anni sette miliardi e mezzo di euro, secondo alcune stime del Sole 24 Ore.
“Se avessimo accettato l’intesa, l’Alitalia avrebbe risparmiato sul costo del lavoro 50 milioni di euro all’anno. Con un deficit di 600 milioni di euro annui il nostro peso, nei fatti, non ci è sembrato così determinante”, spiega Marcialis che è convinto che gli sprechi dell’azienda siano altri: “Gli aerei presi in leasing e i prezzi maggiorati pagati per il carburante”.
Tagli ai costi e niente investimenti
Il 2 maggio si è riunita a Roma l’assemblea dei soci dell’Alitalia per confermare che la ricapitalizzazione è saltata. All’assemblea hanno partecipato le banche creditrici come Intesa Sanpaolo e Unicredit, che da tempo avevano manifestato la volontà di sfilarsi dall’impresa, e la compagnia aerea Etihad che di fatto dal 2014 detiene il controllo della compagnia. Il consiglio di amministrazione dell’azienda ha chiesto l’avvio della procedura di commissariamento. Come era previsto, il giorno successivo il governo ha nominato tre commissari – Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari – e ha assicurato un prestito ponte da 600 milioni con cui affrontare le spese dei prossimi mesi, dal carburante agli stipendi.
Il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda ha spiegato che considera l’amministrazione straordinaria uno strumento per preparare la società a essere comprata da eventuali nuovi azionisti, mentre ha escluso la procedura di fallimento e l’intervento pubblico, che sarà temporaneo, a differenza di quanto auspicato dai sindacati di base che chiedevano una nazionalizzazione della compagnia. “Di tutte e tre le crisi dell’Alitalia che abbiamo vissuto considero quest’ultima la più grave”, ha commentato Nino Cortorillo della Filt Cgil, “per un motivo semplice: a differenza che in passato non c’è nessun compratore alla porta”.
A commissariamento avvenuto, nei discorsi dei dipendenti e degli stessi sindacalisti aleggiano due questioni: il timore della concorrenza delle low cost e la sfiducia nei piani industriali che non prevedano nuovi investimenti. “Siamo spaventati da ciò che potrebbe accadere con il commissariamento e la probabile liquidazione, ma non vogliamo nemmeno che vinca la logica del lavoro low cost, per nessuno”, afferma Mara Romania. “Da quel no, ci sembra di avere riconquistato un po’ di dignità”.
“Ora il re è nudo, i lavoratori che negli ultimi anni hanno sopportato rinunce e tagli alla retribuzione e agli standard delle condizioni di lavoro, hanno detto no, mettendo a rischio il loro stesso posto di lavoro”, afferma Roberti. “Ma in questo modo le loro rivendicazioni sono diventate un fatto politico”.
Il sindacalista Nino Cortorillo spiega che negli ultimi dieci anni il contesto nel quale si è consumata la crisi dell’Alitalia è stato caratterizzato da tre fattori: l’ascesa delle low cost sui mercati europei, le alleanze tra le grandi compagnie aeree che hanno costituito delle vere e proprie concentrazioni e nel mercato italiano gli investimenti sull’alta velocità, in particolare nella tratta Milano-Roma.
“I primi due fattori hanno ovviamente rappresentato un elemento di criticità per tutte le grandi compagnie europee che sono passate da una condizione di quasi monopolio a una situazione di libero mercato con una concorrenza spietata”, spiega Cortorillo. Le altre grandi aziende si sono alleate tra di loro e in alcuni casi hanno provato a inglobare le low cost, oltre a investire sulle tratte a lunga percorrenza come i voli intercontinentali (più vantaggiosi da un punto di vista economico e meno concorrenziali), invece l’Alitalia ha attraversato tre grandi crisi che hanno ridotto il suo volume d’affari, gli investimenti e la sua presenza sul mercato.
“L’Alitalia ha tentato tutte le strade, senza riuscire a percorrerne nessuna”, spiega Cortorillo. “Le grandi compagnie europee hanno agito sulle dimensioni, si sono alleate, oppure hanno fatto nascere compagnie satellite, hanno presidiato il mercato delle low cost senza rincorrerle, mentre Alitalia negli ultimi decenni, per scelta e per condizioni esterne, ha solo ridotto i costi per arginare il deficit di bilancio”, conclude Cortorillo.
In Italia le compagnie low cost controllano il 46 per cento del mercato aereo: l’irlandese Ryanair, con lo stesso numero di dipendenti dell’Alitalia, nel 2016 ha registrato dieci milioni di passeggeri in più (32 milioni nel 2016) ed è la prima compagnia aerea in Italia. Seguita dall’Alitalia, EasyJet e Vueling.
Per Mario Pianta, professore di politiche economiche dell’università di Urbino,”è chiaro che il mercato del trasporto aereo è caratterizzato da una forte crescita delle low cost sui tragitti di breve e media gittata con una forte concentrazione dei guadagni sulle tratte di lunga distanza”.
Secondo l’economista, “è vero che tutte le vecchie compagnie di bandiera hanno risentito della concorrenza delle low cost, ma questo problema è stato risolto in diverse maniere. In Belgio, per esempio, la vecchia compagnia di bandiera è stata fatta fallire, è nata una nuova compagnia non gravata dai debiti del passato, aperta ai privati e con una capacità di inserimento su nicchie di mercato”. Per Mario Pianta, nel caso di Alitalia, una nuova dirigenza dell’azienda dovrebbe definire una strategia sulla base di possibili nuovi partner internazionali. Ma il compito più importante resterebbe al governo che dovrebbe comprendere l’importanza strategica di un settore come quello aereo e “sviluppare una politica industriale di lungo periodo”.
Cortorillo aggiunge che “presidiare il mercato delle low cost significa coltivare quei passeggeri per portarli sui voli a lunga percorrenza. Ma questo corrisponde a investire, comprare aerei, fare alleanze”. Nell’ultimo decennio invece l’Alitalia è passata da 30 milioni di passeggeri a 22 milioni di passeggeri e da una flotta di 180 aerei a una di 100, ha ridotto gli investimenti e i ricavi, mentre il disavanzo è rimasto sempre lo stesso. La logica era quella di volare di meno per risparmiare: “Ma questo orientamento si è dimostrato fallimentare”, conclude Cortorillo.
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